Era infatti il 1898, e un chimico tedesco, di nome Hans von Pechmann, era nel suo laboratorio, intento a riscaldare del diazometano. Per incidente, ottenne una strana sostanza bianca e di consistenza cerosa, che i suoi colleghi, Eugen Bamberger e Friedrich Tschimer, analizzarono scoprendola composta di lunghe catene di -CH2-, dandole il nome di Polimetilene.
La prima pratica di sintesi praticamente applicabile in campo industriale del polietilene fu però scoperta ben trentacinque anni dopo, in Inghilterra: ma anche qui, si trattò di un errore. Lavorando alla ICI, Eric Fawcett e Reginald Gibson ritrovarono, dopo avere esposto ad elevatissima pressione una mistura di etilene e benzaldeide, una sostanza bianca e cerosa – la stessa di von Pechmann. Tuttavia, ad avere causato tale risultato era stata un’accidentale infiltrazione di ossigeno, e per lungo tempo fu arduo replicare l’esperimento.
Fu solo due anni dopo che un nuovo chimico dell’ICI, Michael Perrin, scoprì come riprodurre il procedimento in maniera costante, e quattro anni dopo iniziò la fabbricazione industriale. Il polietilene attraversò poi diverse vicissitudini: se ne scoprì l’alta proprietà schermante, e durante la guerra fu reso segreto militare e utilizzato per isolare i cavi dei radar inglesi; e finalmente nel ’44 ne riprese la fabbricazione anche negli Stati Uniti, sotto licenza dell’inglese ICI. Ma è degli anni ’50 la scoperta che cambiò del tutto la scena, ossia quella di una procedura che richiedesse temperature e pressioni meno elevate; per tale risultato occorse un catalizzatore, e dopo parecchi tentativi vennero sviluppati due metodi, lo Ziegler, tedesco, che richiede condizioni molto miti, e il Phillips, che è meno costoso e più facile.
Disgraziatamente, pur essendo versatile e diffuso, il polietilene non è esente da problemi. Il più grave è quasi certamente costituito dal fatto che non è biodegradabile, e quindi si accumula indefinitamente, generando gravi problemi di contaminazione. Un Paese che vive profondamente questo tipo di problema è il Giappone, in cui la soluzione dell’inquinamento da plastica è stata catalogata come un possibile mercato da 90 miliardi di dollari. Una speranza, di recente, è venuta in tal senso dalla scoperta affascinante di un sedicenne Canadese, Daniel Burd, che ha scoperto come due batteri siano in grado di consumare più del 40% della massa delle borse di plastica in un tempo inferiore a tre mesi.